Le Confessioni di S. Agostino

Pubblicato giorno 26 agosto 2021 - S. AGOSTINO

Vi proponiamo la lettura di alcuni testi estratti dal libro “Le Confessioni” di Sant’Agostino, augurando che possa essere una motivazione alla lettura del testo completo, i titoli dei brani scelti sono:

Prima Parte

1.1 Ti invoco, mio Dio (L. XIII cap. 1) 2

1.2 Mistero della natura umana e sua finezza. Dio e’ eterno (L. I CAP. 6) 2

1.3 Dio ricava il bene anche dal male (L. I CAP.12) 3

1.4 Perché Agostino ricorda le sue colpe (L. II CAP.1) 4

1.5 Bisogno di amore e surrogati illusori dell’amore (L. II CAP.2) 4

1.6 Monica piange sulla perversione del figlio ( L. III CAP.11) 5

1.7 Non può succedere che il figlio di così tante lacrime vada perduto (L. III CAP.12) 6

1.8 La morte di un amico: sconforto di Agostino (L. IV CAP.4) 6

1.9 Le creature devono servire per risalire al creatore, non per attaccarvi il proprio cuore (L. IV CAP.10) 7

 

Seconda parte

2.1 Dio non passa (L. IV CAP.11) 8

2.2 Parte per Roma (L. V CAP.8) 8

2.3 Lode al Dio delle misericordie (L. V CAP.1) 9

2.4 Prendi e leggi (L. VIII CAP.12) 10

2.5 È battezzato insieme con Alipio e Adeodato (L. IX CAP.6) 11

2.6 A Ostia: la contemplazione di Agostino e Monica (L. IX CAP.10) 11

2.7 Morte di Monica (L. IX CAP.11) 13

2.8 I Funerali Di Monica. Agostino s’impone di non Piangere (L. IX CAP.12) 13

2.9 Preghiera di Agostino per sua madre (L. IX CAP.13) 15

2.10 Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicita” (L. X CAP.20) 16

2.11 Agostino riassume quanto ha scritto nei precedenti capitoli (L. X CAP.40) 17

2.12 Dio sarà il riposo e la pace (L. XIII CAP.38) 17

 

Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ecco, eri dentro di me tu, e io fuori: fuori di me ti cercavo, e informe nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose. Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha lacerato la mia sordità; hai lanciato segnali di luce e il tuo splendore ha fugato la mia cecità, ti sei effuso in essenza fragrante e ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi manchi, ho conosciuto il tuo sapore e ora ho fame e sete, mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la tua pace.

 

 

1.  Prima Parte

1.1   Ti invoco, mio Dio (L. XIII cap. 1)

Ti invoco, Dio mio, mia misericordia che mi hai creato e che non ti sei dimenticato di colui che invece si  è dimenticato di te. Ti invoco a scendere nella mia anima, che tu hai preparato a riceverti col desiderio che le hai ispirato. Non abbandonare chi ti invoca, tu che hai prevenuto prima ancora che ti invocassi e hai insistito sempre più fortemente a chiamarmi in vari modi così che io sentissi da lontano, mi voltassi invocassi te che mi chiamavi. Tu, Signore, hai annullato tutti i miei demeriti, per non dover punire le mie mani con le quali ho mancato verso di te, e hai prevenuto tutti i miei meriti, per potermi compensare con le tue mani con le quali mi hai creato: infatti, prima che io esistessi, tu già esistevi; io, invece, non esistevo proprio perché tu potessi donarmi l’esistenza. Ecco che ora esisto per tua pura bontà: con essa mi hai prevenuto in tutto ciò che sono e da lei sono stato fatto. Non avevi bisogno di me, né io sono un bene da cui tu possa ricevere aiuto, mio Signore e mio Dio; se mi metto al tuo servizio non è che tu abbia a faticare di meno, né ne risente la tua potenza se ti viene a mancare il mio ossequio. E non è che ti debba rendere culto allo stesso modo che coltivo la terra, così che se non ti coltivo tu resti incolto; semmai sono io che devo servire te e renderti culto per ricevere del bene da te che già mi hai dato l’esistenza ricca di ogni bene.

1.2  Mistero della natura umana e sua finezza. Dio e’ eterno (L. I CAP. 6)

Eppure lascia che io parli davanti alla tua misericordia; sono terra e cenere, ma tu lasciami parlare, perché è alla tua misericordia, non ad un uomo pronto a deridermi, che io parlo. Forse anche tu riderai di me, ma poi mi guarderai e avrai misericordia. Cos’è infatti che voglio dire, Signore, questa vita mortale, o, magari, morte vitale? Non lo so. Ma sono stato accolto dal conforto delle tue misericordie: così mi hanno detto i miei genitori, colui dal quale mi hai tratto e colei nella quale mi hai formato nel tempo;io, infatti, non me ne ricordo. Mi hanno accolto, dunque, i conforti del latte umano; e non era mia madre né erano le mie nutrici a riempirsi i seni, ma eri tu, Signore, che mi davi per mezzo loro l’alimento dell’infanzia, secondo il piano con cui hai disposto tu tutte le cose, fino alle minime. Facevi anche si che io non desiderassi più di quanto mi davi, e che coloro che mi nutrivano mi dessero ciò che tu davi a loro; esse infatti mi davano volentieri, con affetto, ciò di cui sovrabbondavano per grazia tua, e il bene che mi veniva da loro era un bene anche per loro: non da loro, in realtà, mi veniva, ma per loro tramite, perché ogni bene deriva da te, o Dio; dal mio Dio ogni salvezza! Di questo mi sono reso conto più tardi, quando me lo hai come gridato proprio attraverso i tuoi doni sia esteriori che interiori: allora ero capace soltanto di succhiare, di godere delle cose piacevoli e di piangere di quelle spiacevoli, nient’altro.

Cominciai poi anche a ridere, prima nel sonno e poi da sveglio: queste cose mi sono state riferite, e vi ho creduto perché vediamo far così anche gli altri bambini; io certo non me lo ricordo. Ed ecco che a poco a poco cominciavo ad aver coscienza del luogo ove mi trovavo, e avevo voglia di manifestare i miei desideri a chi avrebbe potuto soddisfarli, ma non mi riusciva perché i desideri erano dentro di me, le persone invece erano al di fuori di me, e in nessun modo esse avrebbero potuto penetrare nel mio animo. E così mi dimenavo e strillavo, indicando in qualche modo quei miei desideri, così come potevo, cioè in maniera inadeguata. Se poi non ero ascoltato, o perché non mi si capiva o perché ciò che desideravo mi sarebbe stato di danno, mi sdegnavo con i più grandi di me che non mi obbedivano e non mi servivano, e mi vendicavo piangendo. Così sono i bambini, e l’ho imparato conoscendoli: che così fui anch’io, infatti, me l’hanno insegnato meglio loro, inconsciamente, che non i miei consapevoli educatori. Ed ecco che la mia infanzia è morta da tempo, ed io vivo. Tu invece, Signore, sei sempre vivo e nulla di te muore, poiché prima che iniziassero i secoli ed ogni cosa, prima ancora che si potesse dire “prima”, tu sei, e sei il Dio e Signore di tutte le cose che da te sono state create; in te permangono stabili le cause di tutte le cose, permangono immutabili i principi di tutte le realtà mutevoli, permangono eterne le ragioni di tutto l’irrazionale e il temporale. Dimmi, dunque, ti supplico, o Dio, che tu hai misericordia della mia miseria, dimmi, la mia infanzia fu forse il seguito di un’altra età, allora già morta? Seguiva a quella esistenza trascorsa nelle viscere di mia madre, lo so: di ciò qualcosa m’è stato detto, e, del resto, io stesso ho visto donne gravide. Ma prima ancora di questa, o dolce mio Dio, esistetti da qualche parte, fui qualcuno?. Non ho nessuno che sappia rispondere a queste mie domande; non me l’hanno saputo dire né mio padre né mia madre, né qualcuno che abbia fatto lì esperienza, né la mia memoria.

Ma forse tu ridi di me che sto a chiedermi queste cose e forse mi chiedi di professare di te quello che so e di lodarti per questo?  Ti rendo lode, Signore del cielo e della terra, ti rendo lode per la mia nascita e per la mia infanzia, di cui non ricordo nulla; tu hai dato all’uomo la possibilità di ricostruire queste cose osservando il comportamento altrui, e di crederne molte anche per la testimonianza di modeste donnette. Esistevo, ero vivo già allora, e già sul finire dell’infanzia cercavo i modi di manifestare agli altri i miei sentimenti. Un essere vivente fatto così, da dove può venire se non da te, Signore?. Forse c’è qualcuno capace di farsi da solo? O c’è una qualche sorgente da cui sgorga a noi l’essere e la vita, che ha origine altrove e non in te che ci crei, Signore?. Per te esistere e vivere non sono due realtà distinte, poiché sei insieme il sommo essere e la somma vita. Tu sei l’essere sommo e non muti; in te l’oggi non passa, e tuttavia in te si compie, perché anche tutta la realtà di questo mondo è in te: non avrebbe, infatti, dove passare se tu non la contenessi. E poiché i tuoi anni non vengono meno, essi sono l’oggi: quanti giorni nostri e dei nostri padri sono già passati attraverso il tuo oggi e da esso hanno ricevuto il loro modo d’esistere, e quanti ancora ne passeranno e riceveranno la loro esistenza! Tu invece sei sempre il medesimo, e tutte le cose di domani e di dopodomani e tutte le cose di ieri e dell’altro ieri, tu le farai oggi, le hai fatte oggi!

Che cosa posso farci, se qualcuno non capisce! Cerchi di rallegrarsi anch’egli mentre si chiede: che significa ciò? ; si rallegri anche così, senza accorgersi di averti già trovato, anziché credere di averti trovato, mentre non ti ha trovato affatto.

1.3  Dio ricava il bene anche dal male (L. I CAP.12)

Ci si preoccupava meno per la mia fanciullezza che non per la mia adolescenza. Eppure, io già allora non amavo lo studio, e detestavo il fatto di esservi costretto; tuttavia vi ero costretto, e per il mio bene. Ma io non ne ricavavo del bene, perché studiavo solo in quanto costretto. Nessuno fa del bene per forza, anche se ciò che fa è una cosa buona. E chi mi costringeva non faceva del bene: il bene mi veniva solo da te, Dio mio. Essi, infatti non vedevano altro fine allo studio che mi costringevano a fare, se non quello di appagare inappagabili desideri di ricchezze che sono povertà e di onori che sono disonore. Tu, invece, che conosci persino il numero dei nostri capelli, sapevi servirti, a mio vantaggio, anche dell’errore di tutti coloro che insistevano perché studiassi, e ti servivi dell’errore mio, che non ne avevo voglia, per punirmi: non è infatti che io non meritassi castighi, piccino com’ero, eppure peccatore così grande! Dunque, da chi non faceva il bene tu ricavavi del bene per me, e da me che facevo il male traevi motivi per rendermi quei che meritavo. Hai stabilito, infatti, ed effettivamente avviene così, che ogni disordine sia pena a se stesso.

1.4  Perché Agostino ricorda le sue colpe (L. II CAP.1)

Voglio ricordare le mie colpe passate, le contaminazioni della mia anima, non perché le amo, ma perché voglio amare te, Dio mio. Lo faccio per amore del tuo amore, rievocando le mie vecchie strade perverse. Il ricordo è amaro, ma spero di sentire la dolcezza tua, dolcezza che non inganna, felice e sicura, e voglio ricompormi in unità dopo le lacerazioni interiori subite quando, allontanandomi da te, che sei l’Uno, mi persi in tante vanità.

Nell’adolescenza bramavo saziarmi delle cose più vili ed ebbi il coraggio di avvilirmi in diversi, oscuri amori; la mia bellezza si guastò, e ai tuoi occhi ero come in putrefazione, mentre piacevo a me stesso e cercavo di piacere agli occhi degli uomini.

1.5  Bisogno di amore e surrogati illusori dell’amore (L. II CAP.2)

Non c’era altro allora che mi piacesse di più che amare ed essere amato, ma non sapevo stare nella misura, in quei luminosi confini dell’amicizia che legano anima ad anima. dal fango della concupiscenza carnale e dalla natura stessa della pubertà salivano nebbie che offuscavano il mio cuore, così che non distinguevo più un amore sereno da una oscura passione. Ribolliva tutto confusamente, e quell’età così delicata veniva trascinata per i dirupi delle passioni e sommersa nel gorgo dei vizi.

La tua collera si era ormai addensata su di me, e io non me ne accorgevo. Era come se le catene che, schiavo della morte, trascinavo in punizione della mia superbia, mi assordassero con il loro fragore, così che mi allontanavo sempre più da te; e tu mi lasciavi andare. Io mi agitavo, mi dissipavo, bruciavo tra le passioni della carne; e tu tacevi. O mia gioia, troppo tardi raggiunta! Allora tu tacevi, e io me ne andavo sempre più distante da te, verso sofferenze sempre maggiori e sempre più inutili, superbo nell’abiezione e soddisfatto nei tormenti.

E invece ribollivo, misteriosamente, inseguendo l’impeto del mio istinto e abbandonando te, mentre eccedevo ogni limite imposto dalle tue leggi. Naturalmente non evitai i tuoi castighi: e chi dei mortali lo potrebbe? Tu infatti eri sempre presente con sofferenze, frutto di misericordia, e cospargevi di profonda ripugnanza tutti i miei piaceri illeciti perché mi decidessi a ricercare modi di gioire non offensivi. Se mi fossi deciso, non avrei trovato che te, Signore, te che crei il dolore come strumento educativo, colpisci per sanare e uccidi per non lasciare morire lontano da te.

Dov’ero, in quale esilio mi trovavo, lontano dai piaceri della tua casa, quando avevo sedici anni? Fui completamente dominato dalla follia della libidine, a cui mi diedi senza riserve; follia ammessa dalla falsa onorabilità degli uomini, ma illecita per le tue leggi. I miei non si preoccuparono di trattenermi sulla china indirizzandomi al matrimonio; si preoccuparono soltanto che imparassi ad essere bravo nel fare discorsi, ad essere persuasivo con le belle parole.

1.6  Monica piange sulla perversione del figlio ( L. III CAP.11)

Tu hai steso la tua mano dall’alto e hai tratto la mia anima da queste dense tenebre, poiché mia madre, tua fedele, piangeva su di me più che non piangono le madri la morte fisica dei figli. Ella, infatti, con l’occhio della fede e dello spirito che tu le donavi, vedeva la mia morte; e tu, Signore, l’hai esaudita. L’hai esaudita e non hai trascurato le sue lacrime che rigavano il suolo ovunque ella si mettesse a pregare. L’hai esaudita. Infatti, da chile venne se non da te quel sogno che la confortò così da accettare di tornare a vivere con me e a condividere la mia mensa, mentre prima s’era rifiutata di farlo per il disgusto verso il mio comportamento blasfemo? Sognò, dunque, di stare in piedi sopra un regolo di legno piangente e affranta, e un giovane luminoso e sorridente le andava incontro e le chiedeva perché fosse così triste e piangesse ogni giorno. La domanda era fatta, come spesso succede, non per apprendere qualcosa, ma per insegnare. E infatti, avendo ella risposto che piangeva sulla mia perdizione, quegli la confortò proponendole di guardarsi bene attorno: là dov’era lei c’ero anch’io. Ella guardò e mi vide in piedi sullo stesso regolo.

Che cosa voleva dire questo sogno, se non che tu eri pronto ad ascoltarla, o Bontà onnipotente, che ti curi di ognuno come se ci fosse lui solo da curare, e di tutti come di ciascuno?

Non solo, ma quando ella mi ebbe narrato il sogno, io tentavo di dirle che era piuttosto lei a non dover disperare di diventare un giorno come ero io. Ma ella subito, senza alcuna esitazione, mi rispose: “ No, non mi è stato detto: “ dove è lui, là sarai anche tu”, ma: “ dove sei tu, là sarà anche lui””.

Ti confesso, o Signore, questo mio ricordo così come l’ho in mente. Non l’ho mai nascosto: mi ha turbato più questa risposta tua, data per bocca di mia madre da sveglia, che non il suo sogno. Ella non si è smarrita davanti alla mia interpretazione così sottile ma falsa, e ha visto subito quello che c’era da vedere ( e che io certamente non avevo visto prima che lei parlasse). In quel sogno, così, a consolazione della pena del momento, veniva predetta molto tempo prima alla pia donna la gioia che avrebbe goduto dopo.

Seguirono infatti circa nove anni, nei quali mi avvoltolai in quella profonda fanghiglia e in quelle tenebre di errore, cercando spesso di alzarmi, e sprofondando invece sempre di più; eppure quella vedova casta, devota, morigerata, di quelle che tu prediligi, fatta ormai più animosa per la speranza, ma non per questo meno facile al pianto, non cessava di piangere dinanzi a te, in tutte le ore di preghiera. Le sue preghiere arrivarono si fino a te, ma tu lasciavi che io mi raggiassi ancora nelle tenebre.

1.7   Non può succedere che il figlio di così tante lacrime vada perduto (L. III CAP.12)

Nel frattempo mi desti un altro responso, che voglio ricordare. Ne tralascio molti altri perché ho fretta di arrivare a quelli che più mi preme di far conoscere. Molti, d’altronde, non li ricordo più.

Dunque mi desti un altro responso per mezzo di un tuo sacerdote, un certo Vescovo formatosi nella tua Chiesa e molto esperto nei tuoi libri. Quella donna lo aveva pregato di voler avere un colloquio con me per confutare i miei errori e insegnarmi la verità. Faceva sempre così quando le sembrava di incontrare persone adatte. Quegli però si rifiutò e, come capii più tardi, molto saggiamente. Risposi infatti che io ero ancora indocile perché tutto pieno solo della novità di quella eresia e perché, come essa stessa gli aveva riferito, tronfio di aver già messo in crisi, con alcune questioncine, molte persone impreparate. Le disse: “ma lascialo pure dov’è. Tu prega soltanto il Signore per lui: egli scoprirà da se, leggendo, quanto sia grave quell’errore e quell’empietà”. Nello stesso tempo le raccontò che anche lui, da ragazzo, era stato affidato da sua madre ai manichei che l’avevano incantata; egli aveva non solo letto, ma anche trascritto quasi tutti i loro libri. Così gli era apparso chiaro, senza che nessuno discutesse con lui per persuaderlo, quanto quella setta fosse da fuggire. E di fatto l’abbandonò. Ella però non se ne stette a quelle parole, ma insisteva ancora più supplicandolo con molte lacrime perché mi incontrasse e mi parlasse; allora il Vescovo in tono seccato: “và- le disse- stà in pace! Non può succedere che il figlio di così tante lacrime vada perduto!”.

Queste parole furono da lei accolte come se fossero venute dal cielo, e spesso me lo ricordava nei nostri colloqui.

1.8  La morte di un amico: sconforto di Agostino (L. IV CAP.4)

In quegli anni in cui avevo appena cominciato a insegnare nella città dove sono nato, mi ero fatto un amico che, avendo gli stessi miei interessi di studio, mi era assai caro. Era mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza; eravamo stati ragazzi insieme e compagni di scuola e di giochi, ma solo allora era diventato veramente mio amico, quantunque neanche quella fosse vera amicizia, perché è vera solo quella che unisce persone legate a te dalla carità diffusa nei propri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci è stato donato. Comunque quell’amicizia, maturata al calore dei medesimi interessi, era per me piena di dolcezza. Lo avevo anche sviato dalla fede vera che egli, giovinetto, professava sia pure un po’ superficialmente, e lo avevo trascinato in quelle falsità superstiziose e dannose per le quali mia madre piangeva su di me. La sua mente era ormai nell’errore come la mia, ed io non potevo più stare senza di lui. Ma ecco che tu piombasti alle spalle di questi due fuggiaschi, o Dio delle vendette e nello stesso tempo fonte di ogni misericordia, che fai ritornare a te gli uomini nei modi più mirabili: lo togliesti da questa vita; eravamo amici da appena un anno, e quell’amicizia era stata la cosa più dolce di quel periodo della mia vita.

Chi può enumerare i motivi per lodarti, anche solo quelli sperimentati personalmente?

Ebbene, che cosa hai fatto mai, mio Dio? Come è vero che le tue decisioni sono un abisso investigabile! Colpito da febbri, egli stette a lungo in stato di incoscienza, madido di sudore di morte; siccome si disperava di salvarlo, fu battezzato in quello stato. Io non mi curai della cosa, convinto che egli avrebbe conservate impresse nell’anima piuttosto le cose che aveva apprese da me che non quanto veniva fatto sul suo corpo senza che neanche se ne accorgesse. E invece le cose stavano molto diversamente. Si riprese, e, fuori pericolo, appena potemmo conversare (il che avvenne molto presto, cioè appena egli poté parlare, poiché io non mi allontanavo da lui, tanto eravamo legati a vicenda) tentai di mettere in ridicolo ai suoi occhi il battesimo che aveva ricevuto mentre era completamente incosciente, e di cui ormai era stato informato. Ero sicuro che avrebbe riso di me; egli invece si mostrò disgustato come di fronte a un nemico, e con straordinaria veemente franchezza mi avvisò che, se volevo essergli amico, smettessi di parlare in quel modo. Stupito e sconvolto, pensai di non manifestare sul momento quello che provavo; prima si ristabilisse, si rimettesse in forze, e poi avrei potuto trattare l’argomento come volevo.

Egli però fu sottratto alle mie farneticazioni per essere conservato presso di te a mio conforto: dopo pochi giorni, infatti, mentre io ero assente, fu ripreso dalla febbre e morì.

La sofferenza immerse il mio spirito nelle tenebre, e dovunque guardavo era morte. La mia città mi diventò un tormento, la casa paterna un motivo di infelicità incredibile, e tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, ora, senza di lui, si trasformavano in sofferenze senza limiti. Lo cercavo con gli occhi dovunque, ma non mi era più dato di incontrarlo; detestavo il mondo intero perché lui non c’era più e nessuno poteva dirmi : “eccolo, viene”, come quando, da vivo, era stato, talvolta, momentaneamente assente. Ero diventato un grosso problema a me stesso; mi chiedevo perché fossi così triste e così angosciato, e non sapevo darmi una risposta. Se mi dicevo: spera in Dio!, il mio spirito non mi obbediva, e a ragione, perché era più reale e migliore la persona carissima che avevo perduta che non quel fantasma vago in cui avrei dovuto sperare. Soltanto il pianto mi era dolce: e fu la cosa che sostituì l’amico nel confortare il mio animo.

1.9  Le creature devono servire per risalire al creatore, non per attaccarvi il proprio cuore (L. IV CAP.10)

O Dio di virtù, fa che ci volgiamo a te, mostraci il tuo volto e saremo salvi. Dovunque si rivolga fuori di te, l’animo umano è inchiodato al dolore, anche se si attacca a quanto di bello ci può essere fuori di te e di sé. Eppure le cose belle non esisterebbero se non provenissero da te. Nascono e muoiono: nascendo cominciano ad esistere e a crescere per arrivare poi a maturità, ma subito, una volta mature, decadono e muoiono. E anche se non tutte decadono, tutte però muoiono. Nel momento stesso in cui nascono, dunque, e tendono all’esistenza, quanto più rapidamente crescono verso l’essere, tanto più corrono verso il non essere. Questo è il loro limite, e tu l’hai dato loro perché sono parti della realtà, la quale non esiste tutta insieme, ma è fatta appunto di parti che scompaiono, si succedono e così formano l’insieme del tutto. Anche il nostro parlare si svolge in questo modo, attraverso suoni convenzionali, e il discorso non sarà mai intero se ogni parola non muore dopo aver emesso la sua parte di suono per lasciare posto a un’altra parola.

Davanti a quelle cose la mia anima deve tessere le tue lodi, o Dio creatore di tutto, non già attaccarvisi con affetto sensibile. Esse infatti vanno là dove erano dirette, cioè verso il nulla, e lacerano l’anima con passioni malsane, perché l’anima desidera l’esistenza e vuol trovare sollievo nelle cose che ama. Lì però non c’è possibilità di sollievo, perché le cose non sono stabili; sfuggono, e chi mai riesce a inseguirle con i sensi o ad afferrarle, anche se sembrano a portata di mano? I sensi sono tardi appunto perché sono sensi carnali, e questo è il loro limite. Valgono per altri scopi, per i quali sono fatti, ma non per trattenere le cose che velocemente passano dalla nascita alla loro inevitabile fine: dalla tua parola che le crea si sentono dire: “Da qui fin qui!”.

2.  Seconda parte

2.1  Dio non passa (L. IV CAP.11)

Non essere vuota, o anima mia; non assordare l’orecchio del cuore con il tumultuare delle tue vanità. Ascolta anche tu: la Parola stessa ti grida di ritornare. C’è quiete imperturbabile là dove l’amore non è abbandonato, a meno che non abbandoni egli stesso. Qui invece ogni cosa svanisce, altre ne succedono e così via  si forma l’universo delle realtà inferiori.

Ma il Verbo di Dio dice: “forse che anch’io svanisco?”. Poni dunque la tua abitazione in lui, anima mia, a lui affida tutto ciò che da lui ricevi, stanca come sei, ormai, di essere ingannata! Affida alla Verità tutto ciò che ti viene da lei, e non perderai nulla; rifiorirà quanto in te c’è di marcio, guarirà ogni tua malattia e ogni debolezza ti verrà sostenuta, riparata, rinnovata, né più tardi sarai trascinata in basso, ma resterai sempre in piedi presso Dio onnipotente e stabile.

2.2  Parte per Roma (L. V CAP.8)

Dunque, mi convincesti ad andare a Roma per insegnare là ciò che insegnavo a Cartagine. E non tralascerò di dire donde mi venne tale convinzione, perché anche in questo va vista e proclamata la tua grande misericordia a noi misteriosamente sempre presente. Non mi decisi ad andare a Roma perché gli amici che mi sollecitavano a ciò mi promettevano maggior guadagno e maggior prestigio; anche queste cose attraevano allora il mio spirito, però il motivo principale e pressoché unico fu che sentivo dire che là i giovani si dedicavano allo studio più tranquillamente ed erano tenuti calmi da una più ordinata disciplina coercitiva, cosicché non irrompevamo abitualmente da maleducati nell’aula di un altro maestro, ma vi erano ammessi solo con il suo permesso. A Cartagine, invece, la libertà degli studenti è del tutto sfrenata: fanno irruzione sfacciatamente e quasi come furie turbano l’ordine che ogni maestro cerca di stabilire tra i propri alunni per il loro profitto. Così quegli atteggiamenti che da studente non volli mai assumere, da insegnante ero costretto a sopportarli dagli altri. Ecco perché mi piaceva l’idea di trasferirmi in un luogo dove, a quanto si diceva, non capitavano cose simili. Ma tu,mia speranza e mia parte di eredità nella terra dei vivi, al fine di indurmi a cambiare ambiente per il bene della mia anima, mi facevi trovare in Cartagine dei motivi per allontanarmene, e a Roma attrattive che mi allettavano in uomini amanti di una vita che è morte, soliti a far pazzie e promesse vane. Per correggere i miei passi ti servivi misteriosamente della malvagità mia e loro. Infatti a turbare la mia tranquillità erano persone scalmanate, e chi mi invitava altrove era gente avida di cose terrene; ed io, se rifiutavo qui una miseria reale, là andavo incontro a una felicità apparente.

Tuttavia tu, Dio, sapevi il motivo per il quale io partivo di qui per andare a Roma, ma non lo facevi comprendere né a me né a mia madre. Alla mia partenza ella pianse dirottamente seguendomi fino al mare; mi stringeva a sé con forza perché o tornassi indietro o la lasciassi venire con me. Allora io l’ingannai, fingendo di voler stare lì per non lasciare solo un amico ad aspettare che s’alzasse il vento per levare l’ancora. Mentii dunque a mia madre, e ad una madre simile! Eppure, nonostante le mie molte colpe, tu mi hai salvato perché mi hai misericordiosamente perdonato anche questo; mi hai serbato illeso sulle acque del mare fino a farmi giungere all’acqua della tua grazia che mi avrebbe purificato e avrebbe asciugato i fiumi di lacrime che quotidianamente dagli occhi di mia madre rigavano la terra. A fatica riuscii a convincerla che, se non voleva tornare indietro senza di me, si ritirasse almeno a passare la notte in una cappella dedicata al Beato Cipriano, vicino al luogo dov’era la nave; in quella notte io partii di nascosto, ed ella rimase a piangere e a pregare. E che cosa ti chiedeva, mio Dio, con così tante lacrime, se non di impedirmi di salpare? Tu, però, nei tuoi misteriosi disegni, volendo esaudire i suoi desideri alla radice, non ti curasti di quanto ella ti chiedeva in quel momento, ma ti disponevi a fare di me ciò che ella da sempre ti chiedeva.

Si levò il vento, si spiegarono le nostre vele e si sottrasse al nostro sguardo la riva, sulla quale la mattina dopo ella impazzi di dolore e riempì di lamenti e gemiti le tue orecchie incuranti. Tu mi portavi via da lei per farmi vincere le mie passioni per mezzo delle mia passioni stesse e per punire in lei con una sofferenza meritata il suo amore troppo morboso per me. Ella desiderava avermi vicino, come succede ad ogni madre, ma molto di più del normale, e non sapeva che tu, nella mia assenza, le stavi preparando gioie molto grandi. Non lo sapeva, e per questo piangeva e si lamentava; in quelle sue sofferenze appariva l’eredità di Eva, poiché cercava nel dolore colui che nel dolore aveva partorito. Accusandomi d’averla ingannata crudelmente, se ne tornò alla sua vita solita e alle sua preghiere per me mentre io stavo viaggiando verso Roma.

2.3  Lode al Dio delle misericordie (L. V CAP.1)

Accetta l’offerta di queste mie confessioni dalle mani della lingua che tu mi hai dato e che hai sollecitato a celebrare il tuo nome; risana le mie ossa, e fa’ che dicano: “chi è simile a te, Signore?”.

Chi si confessa a te non presume certo informarti su quanto gli succede nell’animo, poiché neanche il cuore più chiuso in se stesso può sottrarsi al tuo sguardo, né la durezza dell’uomo riesce ad allontanare la tua mano: tu la sciogli come vuoi, o perdonando o punendo. Nessuno si sottrae al tuo calore.

Ti lodi la mia anima e manifesti così il suo amore; celebri le tue misericordie e manifesti così la tua grandezza. Tutto ciò che hai creato non cessa mai di manifestarla: né gli esseri spirituali, che guardano a te, né gli altri esseri, animati o inanimati, attraverso chi li contempla. Così la nostra anima, appoggiandosi alle creature, si solleva dalla sua debolezza, e grazie ad esse giunge a te, loro mirabile creatore. E in te trova ristoro e vera forza.

2.4   Prendi e leggi (L. VIII CAP.12)

Quella profonda meditazione fece emergere dal mio intimo tutta la mia miseria e me la pose davanti agli occhi; allora si scatenò una tempesta portatrice di uno scroscio di lacrime. Per dare sfogo ad esse, mi alzai e mi allontanai da Alipio quanto necessario, perché anche la sua presenza non mi disturbasse: nel travaglio del pianto preferivo la solitudine. Ero in questo stato, ed egli se ne accorse: probabilmente avevo detto qualcosa, e il suo suono della voce, rotta dal pianto, mi aveva tradito. Mi alzai, ed egli, molto stupito, rimase dove ci eravamo seduti. Mi lascia cadere sotto un albero di fico e lì detti sfogo alle lacrime, che proruppero come fiumi dai miei occhi, sacrificio a te gradito; ti dissi molte cose, che volevano avere all’incirca questo significato: e tu, Signore, fino a quando?. Sarai in collera, Signore, fino alla fine? Non ti ricordare delle nostre passate cattiverie!. Mi sentivo infatti ancora trattenuto dal mio passato, e perciò gridavo disperatamente: “ per quanto tempo, per quanto dirò ancora: domani, domani? Perché non ora? Perché non porre fine subito alla mia indegnità?”. Dicevo queste cose e piangevo nel più amaro sconforto dell’anima, quand’ecco sento una voce arrivarmi dalla casa vicina: sembrava quella di un fanciullo o di una fanciulla che ripetesse continuamente una canzoncina: “ prendi e leggi, prendi e leggi”. Cambiai sembiante e mi misi attento ad ascoltare per capire se si trattasse di una qualche cantilena che i fanciulli amano ripetere  giocando; non ricordavo però di averla mai udita. Allora ricacciai il pianto in gola e mi alzai, non potendo pensare ad altro che ad un comando divino che mi dicesse di aprire il libro e di leggere le prime parole che avessi incontrato. Mi avevano, infatti, raccontato che Antonio sentì un richiamo dalla lettura evangelica che veniva fatta in quel momento e alla quale egli era capitato per caso; gli parve che quello che veniva letto fosse detto a lui: và, vendi tutto ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; vieni e seguimi, e subito, accolto il messaggio, egli si convertì a te. Tornai dunque concitato là dove Alipio era rimasto seduto, perché là avevo lasciato il libro dell’Apostolo quando mi ero alzato. Lo presi, aprii e lessi in silenzio le prime parole su cui mi caddero gli occhi: non nelle crapule e nelle ubriachezze, non nella lussuria e nell’impudicizia, non nelle liti e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non assecondate la carne nelle sue passioni. Non volli leggere di più, né ce n’era bisogno. Appena finita la lettura del passo, tutte le tenebre del dubbio si dileguarono proprio come se una luce di certezza fosse stata infusa nel mio animo. Chiusi il libro e, postovi un dito o non so che altro segno, col volto ora sereno, raccontai la cosa ad Alipio. Egli, a sua volta, mi manifestò ciò che accadeva in lui e che io non sapevo. Mi chiese di vedere che cosa avevo letto: glielo mostrai, ed egli lesse anche più avanti, dove io non sapevo che cosa fosse scritto. E il seguito era: accogliete chi è debole nella fede. Egli lo applicò a se stesso e me lo disse. Fu come un invito che lo confermò nel suo proposito, del resto non discorde da quello che era il suo tipo di vita, il quale lo aveva da tempo portato ben più avanti di me; con tranquillità e senza incertezze si unì a me. Andiamo subito da mia madre e le riveliamo la cosa: è tutta contenta. Le narriamo come erano andati i fatti, ed ella, esultante, benedice te che sei capace di fare ben più di quanto non ti chiediamo o non comprendiamo di dover fare. Si avveda di ricevere da te molto di più di quanto era andata chiedendoti per me con le sue umili preghiere e lacrime; tu infatti mi convertisti a te con tale forza che non cercavo neanche più moglie o altra speranza terrena, ed ero ormai ben fermo su quel regolo della fede nel quale tanti anni prima tu mi avevi mostrato in sogno a lei. Cambiasti il suo dolore in una gioia molto maggiore di quella che essa aveva desiderato, molto più preziosa e più pura di quella che avrebbe potuto attendersi dai nipoti carnali che le avrei potuto dare.

2.5  È battezzato insieme con Alipio e Adeodato (L. IX CAP.6)

Quando giunse il momento in cui dovevo dare il mio nome, lasciata la campagna, tornammo a Milano. Anche Alipio volle rinascere insieme con me, rivestito ormai dell’umiltà richiesta dai tuoi ministeri e padrone assoluto del suo corpo al punto da camminare a piedi nudi sul suolo d’ Italia, che è freddissimo e che richiede, quindi, un insolito coraggio.

Aggregammo a noi anche il giovanetto Adeodato, frutto della mia colpa. Tu avevi lavorato bene in lui! Aveva appena quindici anni e superava in intelligenza molte persone mature ed erudite. Esalto dinanzi a te questi che sono doni tuoi, Signore Dio mio, creatore di ogni cosa e così potente da trasformare anche le nostre azioni deformi: in quel ragazzo, infatti, non avendo di mio che il peccato; il fatto che venisse da noi allevato nella tua legge era frutto della tua ispirazione, non di altro. Dunque, celebro i tuoi doni.

Ho scritto un libro che si intitola “Il maestro”. In quelle pagine mio figlio conversa con me: tu sai che tutti i sentimenti ch’egli vi manifesta sono veramente suoi, di quando era sedicenne. In lui ho trovato molte altre qualità ancora più grandi. La sua intelligenza m’incuteva soggezione: e chi mai era stato l’autore di simili meraviglie se non tu? L’hai portato via presto da questa terra, e io lo ricordo tanto più serenamente, poiché non ho più ragione di temere nulla per la sua fanciullezza, per la sua adolescenza, per la sua età matura. Lo avevamo associato a noi perché era nato alla tua grazia insieme con noi e volevamo educarlo nella tua legge. Fummo battezzati e scomparve così ogni nostra preoccupazione riguardante la vita passata. Non mi saziavo mai, in quei giorni, di riflettere sulla grandezza dei piani che tu concepisci per salvare gli uomini. Quanto ho pianto di profonda commozione al sentire risuonare nella tua chiesa il sereno modulare dei tuoi inni e cantici! Quelle voci che scendevano alle mie orecchie favorivano il fluire della verità nel mio animo infuocandolo di devozione mentre le lacrime scorrevano: ed io ne sentivo un gran benessere.

2.6  A Ostia: la contemplazione di Agostino e Monica (L. IX CAP.10)

Pochi giorni prima della sua morte (noi ancora non lo sapevamo, tu solo conoscevi quel giorno) avvenne, certo per tua volontà e in quel modo misterioso con il quale tu sei solito agire, che io e lei ci trovassimo soli affacciati a una finestra dalla quale si dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina. Lontani dalla gente, cercavamo di rinfrancarci dopo la fatica di un lungo viaggio e in vista della traversata marina. Parlavamo tra noi molto dolcemente e, dimentichi del passato, tutti protesi verso le realtà che ci attendevano, cercavamo di immaginare alla tua presenza (tu sei la verità!) quale sarà la vita eterna dei santi, quella che né occhio mai vide, né orecchio intese né mai si realizzò in cuore d’uomo. Aprivamo la bocca del cuore alla tua fonte zampillante, fonte di vita che è presso di te, per esserne aspersi e per meditare, per quanto avrebbe potuto la nostra intelligenza, su una realtà così grande.

Il colloquio giunse a concludere che un qualsiasi godimento carnale, pur proiettato nella migliore luce, non regge il confronto davanti allo sfolgorante gaudio di quella vita, anzi non è neppure degno di menzione; allora, elevandoci ancor oltre, sotto lo stimolo del più ardente amore verso l’Essere stesso, trasvolammo gradatamente su tutte le realtà corporee e sul cielo stesso, là donde il sole, la luna e le stelle gettano la loro luce sulla terra. E anche di là salimmo ancora: immersi nella meditazione ammirata delle tue opere, giungemmo all’intimo delle nostre facoltà spirituali per oltrepassare anche queste e arrivare al luogo dove regna la ricchezza inesauribile, là dove tu pasci in eterno Israele col pascolo della verità; là la vita è la Sapienza grazie alla quale tutto è creato, il passato, il presente e il futuro, mentre essa non è creata, ma sempre è quale fu e quale sarà; anzi, in essa non può distinguersi passato e futuro, ma solo l’essere, poiché è eterna: il passato e il futuro non sono eterni.

Mentre ne parlavamo avidi di raggiungerla con tutto lo slancio dell’anima, arrivammo appena a sfiorarla e, sospirando, dovemmo lasciare lassù, ammaliate,  le primizie dello spirito per tornarcene al chiacchierio vano delle nostre labbra, dove la parola umana nasce e muore. E che cosa c’è di simile al Signore nostro che è la tua Parola, sempre il medesimo, che mai invecchia, anzi rinnova ogni cosa? E commentavamo: se tace il tumulto della carne e svaniscono i fantasmi della terra, dell’acqua e dell’aria; se ammutoliscono i cieli e l’anima stessa si avvolge nel silenzio e si supera non pensando più a se stessa; se tace tutto, i sogni, le immaginazioni, le lingue, i segni e ogni cosa caduca il cui unico discorso, ad ascoltarlo è questo: non ci siamo fatti da noi, ma ci ha fatti colui che dura in eterno; se detto questo, tutto tace perché ogni cosa si pone in ascolto del proprio Creatore così che lui solo parli e non più per mezzo delle cose ma per se stesso, e se noi lo ascoltiamo parlare non più attraverso una lingua di carne o una voce d’angelo o un fragore di nube o una parabola misteriosa, ma direttamente lui che amiamo in queste cose; se lo ascoltiamo direttamente come siamo stati ora protesi e abbiamo colto in un solo istante la Sapienza che dura eterna al di là di ogni realtà; se ciò continua e le altre visioni di gran lunga inferiori svaniscono e quest’unica contemplandola ci rapisce, ci assorbe e ci immerge in un godimento interiore, tale che la vita eterna sia come quel momento di intuizione nel quale sospirammo; ebbene, allora finalmente si realizza l’invito: entra nel gaudio del tuo Signore!. E quando si realizzerà? Quando tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati.

Dicevo queste cose, anche se forse non proprio in questo modo e con queste parole. Comunque tu lo sai, Signore, fu quello il giorno in cui, durante questo colloquio, il mondo con tutti i suoi piaceri perse per noi ogni valore, e mia madre mi disse: “ figlio mio, per quanto sta a me, non mi attrae più alcuna cosa in questa vita. Che cosa ancora stia a fare qui e perché ci sia, non lo so, avendo ormai esaurito ogni motivo di speranza terrena. C’era solo una cosa per la quale desideravo rimanere ancora un po’ su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto ancora a fare qui?”.

2.7  Morte di Monica (L. IX CAP.11)

Non ricordo bene che cosa le risposi; comunque, dopo forse cinque giorni o pochi più, ella si mise a letto malata con la febbre. Un giorno perse i sensi e per un po’ di tempo non fu più presente; noi accorremmo, ma presto tornò in se, guardò me e mio fratello e, come se cercasse qualcosa, ci chiese “Dov’ero?”. Poi, nel vederci dolorosamente stupiti, aggiunse: “ Deporrete qui il corpo di vostra madre”. Io tacevo e cercavo di trattenere le lacrime. Mio fratello, invece, disse qualcosa esprimendo il desiderio che ella avesse a morire non in viaggio ma nella sua patria come cosa più bella. Mia madre, con sguardo preoccupato e severo, lo rimproverò di pensare quelle cose e, rivolta a me, disse: “Ma guarda che cosa dice!”. Poi a entrambi: “Deponete pure questo mio corpo ovunque: non datevi alcuna pena per questo. Vi prego solo di una cosa: ricordatevi di me all’altare del Signore ovunque vi troverete”. Dette come meglio poté queste cose, tacque; la malattia si aggravava e la faceva soffrire. Io pensavo, o Dio invisibile, ai doni di cui arricchisci i cuori dei tuoi fedeli e dai quali fai derivare frutti meravigliosi. Gioivo e ti ringraziavo ricordando quanto ella si fosse in passato preoccupata di preparare la propria sepoltura accanto al marito: siccome erano vissuti in profonda concordia, essa desiderava anche questa consolazione. Tanto l’animo umano è debole nel cogliere i valori divini! Aveva desiderato che tutti ricordassero la grazia da lei ottenuta di far coprire da una medesima terra la terra dei loro due corpi, anche dopo aver viaggiato al di là del mare. Ma ora queste vanità erano scomparse, sommerse dalla pienezza del tuo amore. Quando questa liberazione era cominciata, certo io non lo sapevo; ero contento e ammirato dal fatto che ella ora fosse così. Del resto, il suo desiderio di morire in patria non si era manifestato neanche in quel nostro colloquio alla finestra, quando disse: “Ormai che cosa sto a fare qui?”. Sentii anche dire che già quando eravamo a Ostia, un giorno in cui io non c’ero, ella, conversando con alcuni miei amici con materna confidenza, parlò del disprezzo di questa vita e del bene che è la morte. quelli si erano meravigliati di tanta virtù in una donna (tu gliel’avevi data!), e le avevano domandato se non le faceva paura lasciare il suo corpo tanto lontano dalla propria città. Mia madre aveva risposto: “Nulla è lontano da Dio; e non c’è da temere che egli alla fine del mondo non riconosca il luogo dal quale farmi risorgere”.

Il nono giorno di malattia, a cinquantasei anni di età – quando io ne avevo trentatre – quell’anima colma di fede e di pietà religiosa fu liberata dal corpo.

2.8  I Funerali Di Monica. Agostino s’impone di non Piangere (L. IX CAP.12)

Le chiudevo gli occhi e una sconfinata tristezza invadeva il mio animo: stavo per piangere, ma con un forte atto di volontà rigettavo indietro le lacrime fina ad essiccarne la fonte. Nel fare quello sforzo stavo molto male. quando ella esalò l’ultimo respiro, il giovane Adeodato proruppe in pianto, ma poi, trattenuto da noi tutti, si calmò. Così anche quel tanto di infantile che era in me, e che teneva a manifestarsi nelle lacrime, taceva vinto dalla voce dell’adulto,  dalla voce dello spirito. Non ci sembrava infatti giusto celebrare quel funerale con lamenti e pianti, perché così si suole celebrare la morte come disgrazia o come annullamento totale, mentre la morte di lei non era una disgrazia né era per sempre. Di questo eravamo certi grazie alla sua condotta e alla sua fede sincera: avevamo dunque motivi fondati. Cos’era, allora, che mi faceva tanto soffrire interiormente, se non la ferita infertami dall’improvvisa rottura della dolcissima e amatissima consuetudine di vita insieme? Mi rallegravo d’altronde per la testimonianza da lei resami appunto nell’ultima sua malattia, quando, accarezzandomi mentre le rendevo i miei servizi, mi chiamava buono e ricordava con tanto affetto di non aver mai udito uscire dalla mia bocca parole pungenti o offensive contro di lei. Ma si poteva forse paragonare, o Dio nostro creatore, il rispetto che le avevo portato io ai servizi prestati a me da lei? Privata del suo grande conforto, la mia anima era sanguinante, e la mia vita, ormai tutt’una con la sua, era come lacerata.

Dopo aver, dunque, represso il pianto in quel ragazzo, Evodio prese il salterio e iniziò a cantare un salmo. Tutti quelli della casa gli rispondevano: Canterò, Signore, la tua misericordia e la tua giustizia. Intanto, udita la notizia della morte, si radunarono molti fratelli e donne devote, e, mentre coloro che ne avevano l’incarico si curavano del funerale secondo gli usi, io in disparte, dove era possibile farlo, conversavo con alcuni di quelli che in quel momento mi vollero essere vicini,su argomenti suggeriti dalla circostanza. Con il balsamo della verità lenivo così quella sofferenza che tu solo conoscevi; gli altri non la conoscevano e mi ascoltavano attenti, convinti che io non soffrissi. Intanto, al tuo cospetto, dove nessuno di loro poteva sentire, mi rimproveravo la debolezza da femminuccia e comprimevo le lacrime: esse per un poco si fermavano, ma ben presto tornavano per la forza del dolore. Non arrivavo a prorompere in pianto e riuscivo persino a non cambiare espressione, ma so ben io che cosa provavo nell’animo. E poiché mi dispiaceva molto che queste cose umane, inevitabili nell’ordine di natura e nella nostra umana condizione,  avessero così grande potere su di me, provavo un altro dolore per il dolore; era dunque una duplice sofferenza.

Quando il suo corpo fu portato via, andammo alla sepoltura e ne ritornammo senza piangere. Non piansi neppure davanti al cadavere già posto presso il sepolcro per esservi introdotto, mentre ti pregavamo e si offriva per lei, come là si usa, il sacrificio della nostra redenzione.

Per tutto il giorno fui oppresso da segreto dolore e con l’animo turbato ti pregavo come meglio potevo di guarire la mia pena; tu non lo facesti, credo per imprimermi bene nella memoria anche con questa prova quanto sia forte il legame dell’abitudine, sia pure in un’anima che si nutre ormai della Parola di verità.

Volli anche andare a fare un bagno, poiché avevo sentito dire che i bagni hanno questo nome dal greco balanion, che vuol dire sollievo delle sofferenze dell’animo. Confesso anche questo alla tua misericordia, o Padre degli orfani, che uscii dal bagno nel medesimo stato di prima: l’amarezza del dolore non fu lavata via dal mio animo. Presi poi sonno; e quando mi svegliai, notai che il dolore era molto mitigato. Solo nel mio letto, mi ricordai di quanto fossero veri i versi del tuo Ambrogio. Tu infatti sei Dio creatore di tutto, reggitore del cielo, che vesti il giorno di bella luce e la notte di gradito riposo, così che il sonno restituisca alla fatica abituale le membra ristorate, sollevi gli animi stanchi e li liberi dai dolori e dalle ansie.

Poi, pian piano, tornavo a ricordare il passato della tua serva, il suo comportamento devoto verso di te, dolce e discreto verso di noi; essendone stato privato così improvvisamente, provavo ancora voglia di piangere dinnanzi a te su di lei, su di me e per me. Alfine non raffrenai più le lacrime, che fluirono quanto vollero; ne feci come un giaciglio per il mio animo che vi trovò quiete: c’eri tu a prestarvi ascolto, non un altro qualsiasi, magari pronto a giudicare severamente quel mio pianto.

O Signore, ti confesso queste cose. le legga chi vuole e le giudichi come vuole; se troverà che ho peccato per aver pianto mia madre in quei pochi minuti, mia madre morta sotto il mio sguardo,  colei che per tanti anni aveva pianto me affinché vivessi alla tua presenza, non mi derida, ma piuttosto, se ha carità bastante, ti preghi piangendo anch’egli per i miei peccati, o Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.

2.9  Preghiera di Agostino per sua madre (L. IX CAP.13)

Rimarginata ormai quella ferita per la quale mi si poteva rimproverare di un attaccamento troppo carnale, io ora, o Dio mio verso, per quella tua serva, tutt’altro genere di lacrime: sgorgano da un animo turbato al pensiero dei pericoli che corre ogni uomo che in Adamo deve morire. E’ vero che ella, vivificata in Cristo ancor prima di essere liberata del corpo, visse così da procurare gloria al tuo nome con la sua fede e i suoi costumi, però non oso affermare che da quando la rigenerasti mediante il Battesimo non si sia mai lasciata sfuggire neanche una parola contraria alla tua Legge. E’ stato detto dalla stessa Verità che è tuo Figlio: chi avrà detto a un suo fratello “sciocco”, dovrà essere condannato al fuoco della geenna; guai anche all’uomo dalla vita più irreprensibile, se lo giudichi prescindendo dalla tua misericordia! Poiché però tu non indaghi spietatamente nelle nostre colpe, noi restiamo fiduciosi di aver un posto accanto a te. Chiunque dinanzi a te voglia vantarsi di meriti propri, che cos’altro può enumerare se non i tuoi doni? Oh se gli uomini si riconoscessero uomini e chi si vuol gloriare si gloriasse nel Signore!. Dunque, o mio vanto e mia vita, Dio del mio cuore, lasciando da parte per un momento le opere buone di mia madre, per le quali sono felice di ringraziarti, ora ti prego per i suoi peccati; esaudiscimi per i meriti di quel Medico delle nostre ferite che fu sospeso a un tronco e che, seduto alla tua destra, ti prega per noi. So che ella agì sempre con magnanimità e che condonò di cuore i debiti ai suoi debitori: condonale anche tu i suoi se in tanti anni di vita dopo il battesimo ne contrasse qualcuno. Perdona, Signore, perdona, ti prego, e non entrare in giudizio contro di lei. Trionfi la misericordia sulla giustizia: le tue parole sono vere e tu hai promesso misericordia a coloro che usano misericordia con gli altri; che siano stati misericordiosi è dono tuo, e perciò tu sarai misericordioso con coloro con i quali fosti misericordioso, avrai misericordia di coloro di cui avresti misericordia. Credo che tu abbia già fatto tutto questo che ti chiedo, ma accetta, Signore, l’offerta delle mie parole. Vicina ormai al giorno della sua liberazione, mia madre non pensò di far rivestire sontuosamente il proprio corpo né di farlo imbalsamare con aromi; non desiderò di avere un ricco monumento e neanche che il suo sepolcro fosse in patria: non ci lasciò ultime volontà di questo genere, ma soltanto chiese di ricordarci di lei dinanzi al tuo altare; ad esso aveva servito immancabilmente ogni giorno perché sapeva che là viene donata quella Vittima Santa mediante la quale fu distrutto il documento che era stato stilato contro di noi e fu vinto il nemico, quel nemico che tiene il conto dei nostri peccati e cerca i modi per farci accusare, ma non trova nulla in colui nel quale riusciamo vincitori. Chi ripagherà a lui il sangue versato innocentemente? Chi gli restituirà il prezzo pagato per liberarci da quel nemico? Al mistero di questo prezzo pagato per noi, la tua serva legò la propria anima col vincolo della fede; che nessuno la sottragga alla tua protezione; che non s’intrometta né con la forza né con le insidie il leone e il drago, perché ella non risponderà di non essere debitrice di nulla: temerebbe, infatti, di venir convinta del contrario e di vedersi dinanzi un accusatore astuto; risponderà, invece, che i suoi debiti le furono condonati da colui al quale nessuno mai potrà restituire ciò che egli diede per noi, pur senza doverci nulla. Risposi dunque in pace insieme col suo sposo, prima e dopo il quale non fu sposa di nessun altro, e a cui prestò servizio offrendoti frutti di sopportazione, al fine di guadagnare anche lui a te. Ispira, Signore mio e Dio mio, ispira ai tuoi servi, ai miei fratelli, ai tuoi figli, ai miei signori cui servo col cuore, con la parola e con gli scritti, ispira a chiunque leggerà queste cose di ricordarsi presso il tuo altare della tua serva Monica e di Patrizio che fu suo sposo, attraverso la cui unione mi facesti misericordiosamente entrare nella vita. Si ricordino con devozione di chi mi generò a questa luce transitoria e dei miei fratelli in te, Padre, nella Chiesa che è madre; si ricordino dei miei concittadini nell’eterna Gerusalemme cui aspira il tuo popolo pellegrinante dall’uscita della patria fino al ritorno in essa. E così quelle ultime richieste di lei saranno largamente esaudite grazie alle preghiere di molti, più per queste mie confessioni che per le mie stesse preghiere.

2.10   Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicita” (L. X CAP.20)

Come devo dunque cercarti, Signore? Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò affinché viva l’anima mia. Il mio corpo, infatti, vive della mia anima, e l’anima vive di te. come devo cercare, allora, la felicità? Non la posseggo, infatti, finché non posso dire: “basta, è là”. E qui bisogna che io dica come devo cercarla: se per mezzo del ricordo, come se l’avessi dimenticata oppure desiderandone la conoscenza come cosa del tutto ignota, o perché mai conosciuta o perché dimenticata al punto di non ricordarmi neppure di averla dimenticata. La felicità non è forse quella cosa che tutti vogliono, e non c’è nessuno che non la voglia? Dove l’hanno conosciuta, per desiderarla così? Dove l’hanno vista per amarla a tal punto? certo noi in qualche modo la possediamo. C’è un modo di possederla che è quello di chi è felice perché appunto la possiede, e quello di chi è felice perché spera di possederla. Questi ultimi la possiedono in modo inferiore a quelli che già sono felici per il possesso reale, tuttavia sono in condizione migliore di chi non è felice né in atto né per la speranza. Anche chi la spera, però, non desidererebbe tanto la felicità se già in qualche modo non la possedesse: che la desidera è certissimo; l’ha conosciuta non so come, e in questo senso la possiede, ma non so in quale maniera. Mi chiedo se essa non sia nella memoria perché, se è lì, noi siamo già stati qualche volta felici. Non mi chiedo ora se lo siamo stati ciascuno singolarmente oppure in colui che peccò per primo e nel quale tutti siamo morti e dal quale tutti siamo nati all’infelicità; mi chiedo solo se la felicità è nella memoria. Non la desidereremmo, infatti, se già non la conoscessimo. Appena ne sentiamo il nome tutti affermiamo di desiderarla. Non è per il suono del nome che diventiamo felici. Quando, infatti un greco lo sente pronunziare in latino non se ne rallegra perché  non capisce  ciò che viene detto; noi invece ce ne rallegriamo come se ne rallegrerebbe un greco se lo sentisse nella sua lingua. La cosa in se stessa, infatti, non è né greca né latina, ed è alla cosa in se stessa che mirano sia i greci sia i latini sia gli uomini di qualsiasi altra lingua. Essa è conosciuta da tutti; se tutti potessero essere interrogati con una medesima parlata: volete essere felici?, senza alcun dubbio risponderebbero di sì. Ciò non succederebbe se nella loro memoria non si conservasse la realtà che porta quel nome.

2.11  Agostino riassume quanto ha scritto nei precedenti capitoli (L. X CAP.40)

Mentre ti riferivo come potevo le cose da me viste e ti chiedevo consiglio, quando mai tu, o Verità, ha smesso di camminare al mio fianco per insegnarmi da che cosa devo guardarmi e che cosa invece devo volere? Ho perlustrato il mondo esterno con i sensi, ho esaminato la mia vita e gli stessi miei sensi. Di lì sono entrato nei recessi della mia memoria, mirabilmente pieni di innumerevoli ricchezze: li ho esaminati e ne sono rimasto stupefatto. Non ho potuto discernervi nulla senza il tuo aiuto e ho trovato che nessuna di queste cose sei tu. Io stesso, lo scopritore, che ho perlustrato ogni cosa, ho tentato di distinguere e di valutare ognuna secondo il proprio valore, sia quelle che avevo ricevuto attraverso i sensi e che interrogavo, sia quelle che sentivo tutt’uno con me; ho esaminato, nonché classificato, i sensi stessi da cui le avevo ricevute e poi, tra le vaste ricchezze della memoria, ne ho studiate molte, riponendone alcune nel loro ripostiglio, altre traendone fuori; ebbene, io stesso che facevo tutto ciò, ossia le mie forze grazie alle quali ho lavorato, non eravamo te. Sei tu la luce inestinguibile, quella che io andavo interrogando su tutte le cose: sulla loro esistenza, la loro natura, il loro valore;  quella che ascoltavo insegnare e comandare. Faccio questo spesso; è una cosa che mi è piacevole e nella quale mi rifugio appena posso allentare un po’ le attività di dovere. E in nessuna di queste realtà, tra le quali spazio e sulle quali ti consulto, trovo un luogo sicuro per la mia anima se non in te; in te soltanto posso raccogliere tutte le parti disperse di me e nulla più di mio si allontana da te. talvolta mi fai provare un sentimento interiore affatto insolito, un non so che di dolce che, se si perfezionerà dentro di me, diventerà un qualche cosa che non so, ma che non sarà certamente questa vita. E invece ricado poi sotto il peso della fatica e vengo riassorbito dalle solite cose che mi tengono avvinto; piango molto, ma sono avvinto moltissimo. E’ così determinante il peso dell’abitudine! Potrei stare qui e non voglio starci; vorrei stare là, ma non posso, e così sono infelice da ogni parte.

2.12  Dio sarà il riposo e la pace (L. XIII CAP.38)

Noi dunque vediamo queste opere che tu hai compiuto perché esistono; ma esse in realtà esistono perché tu le vedi. Noi vediamo al di fuori che esistono, al di dentro che sono buone; tu, invece, le hai viste fatte quando vedesti che erano da fare. noi in questo tempo siamo mossi a fare il bene dopo che il nostro cuore ne ha ricevuto l’idea dal tuo spirito: prima eravamo mossi a fare il male perché ti abbandonavamo; tu invece, o Dio, che sei l’unico bene, non hai mai cessato di fare il bene. Ci sono alcune nostre opere che sono buone per grazia tua, ma non sono eterne; noi, comunque, abbiamo speranza di poter riposare, dopo averle compiute, nella tua eterna santità. Tu, che sei il bene ricco di ogni bene, sei sempre in riposo, perché sei tu stesso il riposo.

Chi fra gli uomini sarà capace di far capire queste cose a un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo ha un uomo? A te bisogna chiedere di capire, in te cercare, alla tua porta bussare: così, solo chi riceve, si trova, ci viene aperto.