L’angelo disse alle donne:
“Voi non abbiate paura!
So che cercate Gesù, il crocifisso.
Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto.
Presto, andate a dire ai suoi discepoli:
“È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete” (Mt 28, 6ss)
“È risorto dai morti”. Non c’è frase più difficile da comprendere che questa. Che cosa significa risorgere? Che cosa significa che Gesù è risorto dai morti? I Vangeli ci narrano di una grande diversità tra la resurrezione di Gesù e le altre resurrezioni che Gesù ha operato: il Figlio della vedova di Nain e Lazzaro. Questi ultimi sono stati resuscitati da Gesù ritornando alla vita che precedeva la loro morte, per prolungare il loro pellegrinaggio terreno, per affrontare nuovamente la morte. In questo caso, Gesù opera un’azione di grande misericordia: si fa prossimo alla persona che soffre e allevia la sua sofferenza restituendo alla vita il proprio parente (il Figlio, Lazzaro). Questa vita però non sa ancora di eternità, è un prolungamento della precedente, ma è ancora fragile, sottoposta a tutti i limiti che la creaturalità impone e che la lotta tra il bene e il male mettono sul cammino di ogni uomo e di ogni donna.
La resurrezione di Gesù è molto diversa. Egli non torna semplicemente in vita ma sconfigge definitivamente il male, la morte e supera, in questa vittoria, la fragilità e i limiti creaturali. Che cosa significa? Difficile dirlo con chiarezza; anche i discepoli che lo hanno visto risorto non riescono a raccontarlo se non attraverso delle immagini che cercano di spiegarci la particolare condizione di chi ha vinto la morte non per tornare a riaffrontarla da lì a breve, ma definitivamente. Essi, nello stupore di chi assiste ad un evento che non ha pari e che quindi non può essere raccontato se non allusivamente, dicono che Gesù non era immediatamente riconoscibile, che entrava a porte chiuse, che se lo trovavano accanto senza capire da dove venisse. La prima preoccupazione di Gesù era di mostrare di non essere un fantasma, di non essere semplicemente un’entità spirituale; egli è risorto con il suo corpo, ma si tratta di un corpo trasfigurato, non più sottoposto a limiti: mangia con loro, viene da loro toccato, si scorgono nel suo corpo i segni dei chiodi e la ferita del costato trafitto eppure quei segni e quella ferita non sono più causa di sofferenza; il suo corpo non è più soggetto alle leggi spazio temporali: “appare”, “entra a porte chiuse”. Sembrerebbe proprio che sia possibile affermare che i discepoli e gli apostoli hanno assistito a un evento raccontabile solo attraverso delle “immagini”.
Il primo annuncio, quello consegnato alle donne e che ha per destinatari i discepoli dunque la resurrezione, la gioia della vita che sconfigge la morte, la vittoria che porta una pace, una beatitudine eterna.
Nell’annuncio affidato alle donne vi è anche un’indicazione per i discepoli: “Vi precede in Galilea”.
La Galilea è il luogo dove Gesù è cresciuto e dove ha passato la maggior parte del tempo anche durante la sua vita pubblica, ma è anche un luogo oltremodo significativo: è il crocevia dei popoli, a tal punto che quella regione viene chiamata la Galilea delle genti (da gentili, termine con il quale venivano indicati i popoli non ebrei). In quella terra si incrociano la Via del Mare, la via dei Re e la “scala di Tiro”, le principali strade percorse dai commercianti e dunque le vie dove insieme al commercio s’incontravano anche idee, culture, tradizioni differenti. Israele e la Galilea in particolare erano il crocevia tra il mar Mediterraneo e l’oriente, la Giordania, l’Egitto. Il mare di Galilea a motivo della pesca e del commercio era poi particolarmente significativo.
Oggi definiremmo una strategia geniale quella di Gesù di crescere nel crocevia delle culture, e di iniziare lì predicazione della Buona Novella e di radunare lì i discepoli perché continuino a diffondere l’annuncio.
Se Gerusalemme resta il luogo simbolo della fede, il monte sul quale si scorge la luce (la luce del Tempio, della croce, della Resurrezione), la Galilea resta il luogo dell’incontro e dello scontro quotidiano del bene e del male, non per nulla la piana di Megghiddo (che la tradizione nomina Armagheddon) è citata nell’Apocalisse come il luogo dove avverrà la vittoria definitiva del bene sul male, non per nulla la pianura di Izreel, sempre in Galilea, è il luogo dove Israele ha combattuto le battaglie più significative della sua tradizione.
Gesù risorto, come aveva già anticipato a Pietro Giovanni e Giacomo nella Trasfigurazione, invita a contemplare la bellezza del monte (luogo d’incontro con Dio, punto di arrivo dei pellegrinaggi), per poi scendere nella Galilea delle genti, cioè in quei luoghi dove i popoli s’incontrano, si confrontano e, a volte si scontrano, con idee, culture, tradizioni, differenti, a partire dalle quali operare una sintesi che non abbia il sapore del sincretismo, ma che rispetti l’identità di ciascun uomo e di ciascuna donna.
Ma anche noi siamo discepoli che vogliono incontrare il Risorto e dunque invitati a precederlo in Galilea. Qual è oggi la nostra Galilea? San Paolo aveva trovato la sua Galilea nelle città con grossi porti, accorgendosi che annunciando lì il Vangelo, inevitabilmente questa buona novella avrebbe preso il largo insieme a coloro che lì erano solo di passaggio o a coloro che, abitanti di quei luoghi, intraprendevano viaggi periodici per ragioni commerciali esportando forse con i loro oggetti preziosi anche un primo annuncio di speranza appreso alla scuola di questo servo del Signore. Dunque, potremmo dire che per noi Parrocchiani di Mater Amabilis e Sant’Anna, discepoli privilegiati del Signore… Milano, sebbene non capitale (del resto neanche Cafarnao, Nazareth, Genesaret, Cesarea o Giaffa lo erano), è il punto d’incontro di idee, culture, tradizioni, religioni differenti. Per cogliere la città in genere e i nostri quartieri in particolare come luoghi dove seminare la buona novella, occorre vincere la paura di essere sopraffatti, e riacquistare la fede tipica del Battista che la voce di uno che grida nel deserto non è fiato sprecato… certo, soprattutto a noi cristiani, immersi nel frenetico mondo milanese, è chiesto di essere segno, un segno di ascolto, di prossimità, di accoglienza, di contraddizione rispetto alle logiche del mondo ed è anche chiesto di abitare questa città senza assumerne i tratti dispersivi: insomma dovremmo stare nel mondo senza essere del mondo.
Un’occasione per realizzare quest’incontro di tradizioni differenti sarà la festa di fine anno pastorale il 26 maggio.
Invitiamo a partecipare tutte le persone che provengono da diversi luoghi e tradizioni, per realizzare una festa di popoli, per favorire l’incontro e il confronto, per sottolineare che è possibile camminare insieme. In quest’occasione sarebbe bello che ciascuno dei partecipanti portasse una pietanza tipica del suo luogo d’origine per condividerla con gli altri.
Don Renato