Democrazia?

Pubblicato giorno 5 aprile 2019 - Arte, cultura e società, Informatore Parrocchiale

Quando un Italiano del nostro tempo dice Democrazia dovrebbe provare un senso profondo di fiducia. In questo Paese la democrazia ha avuto una storia densa di avvenimenti felici e drammatici, che hanno (o dovrebbero aver avuto) uno sviluppo significativo.

Da dove viene l’Italia

La vicenda si avviò verso la metà dell’Ottocento, quando scoppiarono i primi moti insurrezionali che avrebbero condotto al Risorgimento e presto a una realtà nuova politica, sociale, culturale, economica. In una ventina d’anni l’Europa avrebbe preso atto che Italia era una realtà nuova, con un passato illustre e con un avvenire incerto, ma promettente.

A questo punto però conviene riflettere sul senso del cambiamento: radicale in senso politico, ma molto differenziato quanto a condizioni di vita negli otto stati preunitari. italia

La cartina qui accanto è eloquente. Conviene imprimerla nella mente. Ognuno degli otto stati rappresentati aveva una propria storia e una realtà politica e sociale differente, soprattutto se consideriamo il blocco degli Stati Pontifici e del Regno delle Due Sicilie: arretrati come struttura politica e sociale, come modelli culturali (e livello di istruzione popolare).

Bisogna riconoscere che lo Stato Unitario proponeva (o meglio, imponeva) strutture amministrative di stampo francese, quali esistevano in Piemonte spesso difficili da capire dalle popolazioni degli Stati più arretrati (abituate, ad esempio, a servizi civici di minimo livello, con stili di vita arretratissimi per le masse contadine, cioè la gran maggioranza delle popolazioni). Non è un caso che le strutture sociali presenti in Sicilia rispecchiassero i caratteri tipici della mafia contadina.

Guardiamo un poco dentro i fatti

D’altra parte, l’Unità era stata voluta e guidata da una minoranza di giovani educati in una cultura fondamentalmente illuministica e romantica, poco familiare anche alle masse contadine (e al basso clero) dei loro stessi Paesi, dove del resto sopravviveva una nobiltà che doveva la sua fortuna ai regnanti spodestati dai ”Piemontesi” e convertiti alla fedeltà sabauda. Si aggiunga il tornado garibaldino, mal compreso dalle popolazioni siciliane, che l’avevano interpretato come liberazione senza corrispettivi fiscali, incappando subito in acerbe delusioni. Lo dimostrano le rivolte scoppiate in Sicilia già durante il governo garibaldino (a cominciare dai fatti di Bronte, quando la repressione di una sommossa popolare era stata stroncata con le armi da Nino Bixio). L’arrivo delle truppe italiane, l’incontro di Teano, e poi la dolorosissima piaga del banditismo, avevano annebbiato pesantemente la liberazione del Sud. Uno sprazzo di favore popolare aveva accompagnato la Repubblica Romana, ma nei decenni successivi l’assestamento istituzionale dello Stato sabaudo conobbe altri momenti tragici. Ricordiamo la lunga repressione militare degli scioperi coi fatti di Milano del ‘98 (e la sanguinosa repressione di Bava Beccaris), e ancora l’attentato di Bresci a Monza contro Umberto I.

Democrazia istituzionale

La conclusione del Risorgimento e la “crescita” dello Stato sabaudo segnarono certo il faticoso cammino dell’Italia per fare gli Italiani (Cavour l’aveva perfettamente compreso). In ogni caso il vecchio Statuto di Carlo Alberto, emanato nel 1848, segnò il carattere politico del nuovo Stato: democratico parlamentare, coi caratteri tipici del moderno stato di diritto, nel quale si integravano i tre poteri legislativo, giudiziario, esecutivo, nessuno dei quali prevaleva sugli altri, e che riconosceva il sovrano come supremo rappresentante dello Stato, ma con poteri rigorosamente definiti, che avrebbero impedito qualsiasi devianza in senso autoritario.

Fu certo una costituzione saggia, redatta con intendimenti liberali. Tuttavia, permetteva di essere modificata con legge ordinaria: un varco assai pericoloso, che avrebbe poi consentito (durante la dittatura fascista) manipolazioni significative mediante normale procedimento parlamentare, cioè di competenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; il simulacro di parlamento che aveva sostituito la Camera dei Deputati. Considerando che il Senato era integralmente di nomina regia, è facile comprendere la ferita mortale che venne inflitta all’intero Statuto, incentrato sul classico sistema bicamerale (o monocamerale elettivo) dei parlamenti democratici.

Questo spiega la grande cautela che la Costituzione repubblicana richiede oggi: le modifiche sono regolate con procedura speciale riservata alle norme costituzionali. Oltre al fatto che sull’intera legislazione, dello Stato come delle Regioni, la Corte Costituzionale esercita un esclusivo controllo di merito, con procedura speciale e vincolante per tutti gli organi legislativi.

Gravi prospettive d’oggi

Oggi, in particolare, sembra che si vogliano scardinare gli stessi presupposti sui quali si fonda l’attuale forma di Stato, che prende atto della perdurante squilibrata distribuzione di ricchezza sul territorio e tende a riequilibrarla mediante un sistema di vasi intercomunicanti: in sintesi un’applicazione politico-economica dell’evangelico “chi ha due tuniche ne dia una a chi non ha”. Gli innovatori pretendono di spezzare una volta per tutte il rapporto tra ricchi e poveri, sviluppando la ricchezza delle regioni ricche, la quale (dichiarano i suddetti soggetti) finirà col ricadere in qualche modo anche a vantaggio dei “poveri.”  Lo strumento principe che viene proposto per ottenere il balzo in avanti delle regioni ricche è – in definitiva – lo smantellamento dell’impostazione solidaristica della Costituzione per lasciare mano libera al vento di espansione (abbandonando di fatto i ”poveri” al loro destino nel comune serraglio).

Per ottenere tutto ciò la richiesta delle regioni ricche (o di molte fra loro) implica un terremoto costituzionale: espandere al massimo le competenze regionali in ogni campo capace di produttività (dal commercio nazionale ed estero, all’industria al turismo, all’esercizio autonomo dei diritti fiscali senza più controlli da parte dello Stato). Con ciò cesserebbe ovviamente l’unità d’Italia.
A parte gli intollerabili rischi che ne potrebbero derivare per la stessa sicurezza dello Stato  ad esempio la sorte di immobili e spazi e magari d’installazioni attualmente gestite dalla Difesa nazionale, oltre al rischio che una rete privatizzata di rapporti commerciali e finanziari internazionali venga sottratta allo Stato. È evidente che l’impostazione solidaristica della Costituzione uscirebbe totalmente compromessa e che cesserebbe semplicemente l’attuale Stato Nazionale.

Due le principali conseguenze: il debito morale che lo Stato ha tuttora verso i meridionali per i sacrifici loro imposti in pace e in guerra acquisterebbe il significato di una burla indegna. Quanto al resto, quella consistente e tenace parte di funzionari dello Stato e di cittadini tuttora impegnati a combattere le mafie resterebbe del tutto scoperta. Vedremmo le mafie impadronirsi definitivamente di ciò che resta dell’Italia. Con buona pace dei Dalla Chiesa, dei Falcone, dei Borsellino, dei Don Puglisi e di moltissimi altri.

Riccardo Nassigh