Anniversario della Parrocchia di Sant’Anna – 10 Marzo 2019

Pubblicato giorno 5 aprile 2019 - Informatore Parrocchiale, Vita della comunità

In occasione del 60° anniversario della parrocchia di Sant’Anna Matrona è venuto ad aprire la Quaresima Monsignor Giovanni Giudici.monsignor giudici

Di seguito riportiamo la sua omelia dal tema: Una Chiesa dal volto di madre.

Abbiamo ascoltato, nel brano evangelico di inizio Quaresima, la descrizione delle tentazioni di Gesù nel deserto.

Il racconto evangelico dice con chiarezza che il Salvatore affronta, prima di noi ma con noi, l’inclinazione egoistica dell’animo umano. E’ il Maligno che lo provoca per la sua collocazione nella vita pubblica che ormai gli si apre davanti; dopo la manifestazione del battesimo che ha ricevuto da Giovanni, e la Voce dall’alto, e la presenza dello Spirito che visibilmente scende su di Lui, Gesù sta ora di fronte a se stesso, ai suoi contemporanei, e di fronte a Dio.

L’avviso che gli dà l’Avversario è chiaro: se accontenti la gente nei suoi bisogni materiali, ti seguirà. Se mostrerai segni portentosi che incantano i tuoi ascoltatori, si fideranno di Te. Se, da ultimo, supererai, cioè lascerai cadere i tuoi atteggiamenti di rispetto per il bene, la giustizia, la solidarietà, allora certo dominerai il mondo.

La forma letteraria con cui sono scritte le tentazioni, riecheggia, se badiamo bene, i dibattiti con i maestri degli scribi e dei farisei che Gesù vivrà durante tutti i tre anni del suo ministero pubblico. Anche i suoi discepoli vorrebbero spingerlo a trovare un accomodamento con le pretese della gente: “Fai gesti straordinari, trova modo di accordarti con le autorità del nostro popolo e dei romani…”.

Per Gesù si tratta di non soccombere al fascino e agli inviti delle disposizioni abituali del nostro mondo. Nel progetto di agire a prescindere dalla generosa paternità di Dio, di perseguire una seduzione della gente e un dominio sugli altri, la proposta di Satana descrive in concreto l’apparente saggezza dell’umanità che non si fida di Dio. Il Signore invece intende insegnare a fare memoria della bellezza e della bontà dell’ordine che Dio ha donato al mondo e all’umanità.

Il Signore ci mostra nella discussione con Satana, come tutta la sua vita sarà la ricerca dell’ultimo posto, la scelta di donare tutta la sua vita, fino all’ultimo respiro, a noi suoi fratelli. L’atteggiamento di Gesù è descritto da Paolo con un vocabolo da lui coniato: kenosis, ‘svuotamento’.

Anche la Chiesa ha da guardarsi da queste tentazioni di avere, di conquistare fama e potere a tutti i costi. Con parola sintetica Papa Francesco ha espresso tutto ciò, affermando: La Chiesa è chiamata a riscoprire la centralità della compassione. «La kenosis di Cristo è l’espressione massima della compassione del Padre. La Chiesa di Cristo è la chiesa della compassione, e questo inizia a casa». Egli fa eco alla parola di Gesù a noi suoi discepoli: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. L’idea di Chiesa che con Don Ambrogio, don Renato e padre Antonio, intendo proporvi, è che restiamo una comunità viva, ed efficace nell’annuncio del Vangelo oggi, nella misura in cui siamo una comunità della compassione.

Nella luce della Chiesa come comunità della accoglienza e della misericordia, vorrei parlarvi della parrocchia di oggi, a sessanta anni dalla sua fondazione. Nel riflettere su come sognare la Chiesa di domani e di continuare ad operare per essa perché sia una comunità viva, mi domando che cosa intuisco già presente, per opera dello Spirito, nella comunità di oggi. Vorrei parlare con realismo e con fede per poterci incoraggiare a vicenda nella splendida avventura di essere cristiani oggi.

Inizio riflettendo sui cambiamenti che constato nella situazione contemporanea, rispetto a ciò che ho vissuto –che abbiamo vissuto- da cinquanta anni a questa parte. Guardandoci attorno c’è spazio per il pessimismo o per un realistico ottimismo? Ricordo una interessante riflessione, a questo proposito, del Card. Martini:

Dobbiamo accettare con umiltà̀ i limiti mentali nostri e quelli della nostra epoca. Una caratteristica della postmodernità̀ è data dal fatto che, a differenza di quanto avveniva nel passato, noi oggi sappiamo tutto, possiamo fare tecnicamente tutto, ma non cogliamo il senso di tante cose. Siamo allora chiamati a superare i limiti della nostra conoscenza con l’amore. Se non sempre riusciamo a capire, sempre possiamo amare, amare è un modo di sanare la frattura di significato che agita la società̀ contemporanea. Amare è una conoscenza più̀ profonda che non sbaglia perché́ è imitazione del Dio che conosce e ama.

Riconosciamo gli aspetti positivi di una società nella quale abbiamo avuto la possibilità di una vita con doni importanti: l’istruzione, la libertà di esprimere le nostre idee sulla società. Penso alla possibilità di vincere la fame, alle disponibilità che abbiamo di fruire della natura e dell’arte, riconosco che abbiamo guadagnato del tempo di vita per le cure sanitarie; a molti è dato di coltivare le nostre buone curiosità nella cultura, nella storia, nell’arte.

Donando tutti questi aspetti positivi, di cui le generazioni prima di noi non avevano usufruito, la modernità ha tuttavia perso le sue radici spirituali ed ha imposto un umanesimo immanente ed autosufficiente. Personalmente ritengo che il cristianesimo non debba esprimere una concezione antagonista alla ‘cultura’, alla mentalità contemporanea, ma che abbia la grazia di continuare a proclamare le verità della fede e la loro fondazione metafisica e naturale, collocandosi all’interno di una società pluralista. Il credente è persuaso che non per lui, ma per gli altri la fede è una delle possibili opzioni che le persone possono fare.

Il perno del dibattito che il cristianesimo deve aprire sta nella pienezza delle proposte di vita presentate da Gesù e dal suo Vangelo, e quindi far riferimento a quella completezza dell’essere, a quella ricchezza interiore, a quella intima riconciliazione che ciascun credente riporta dall’incontro con Dio, e che i non-credenti onesti e avveduti riconoscono come una sorta di autenticità umana.

Per noi vivere la fede apre prospettive nuove, rasserenanti e impegnative: si tratta di una scelta che non produce necessariamente conflitti sotto il profilo sociale e pubblico, ma impegna la mia libertà: “Io credo in Te”; potremmo sintetizzare così la nostra fede. “E non dimenticherò che Tu mi hai chiamato, mi conosci e mi ami; io so che il tuo amore passa attraverso le mie libere scelte, nella vita di coloro che amo”.

Per quanto riguarda la dimensione sociale e politica, il nostro vivere nella fede è prospettiva che accetta fino in fondo la finitezza e la debolezza della libertà umana, sa che questa produce pluralità di posizioni più che uniformità, possibilità di errori più che certezze assolute, scelte opinabili più che verità intoccabili. Qui sta la sfida più impegnativa per noi credenti: una proposta educativa – e ogni società deve averla – non può essere una proposta debole e non dovrebbe nemmeno essere fatta da soggetti che la vivano debolmente.

Non si tratta di misurare il declino delle credenze e la diminuzione dei credenti ma di cogliere come questi atteggiamenti si collocano nel contesto globale della comprensione di sé e della vita sociale, cioè nel contesto della nostra esperienza e della nostra ricerca spirituale e religiosa. Credere o non-credere non sono “teorie” ma delle condizioni di vita, dei luoghi che implicano la parte più profonda di noi stessi.

In questo contesto di lettura della nostra condizione, intendo parlare della parrocchia, celebrando i cinquanta anni di vita.  Per noi si tratta di chiederci quali siano le condizioni reali della nostra vita di parrocchia, le condizioni cioè in cui si pone la vita credente nostra oggi, e come ci relazioniamo al mistero santo di Dio.

È chiaro per tutti che la fede delle persone e il servizio delle strutture territoriali di base vanno rivisitate a partire dalla nuova condizione che noi viviamo, dal punto di vista religioso.

Oggi la struttura parrocchiale non incanala più la totalità della ricerca religiosa delle persone; questa segue percorsi molteplici, a volte legati a movimenti, e a volte secondo forme individuali e autonome. Bisogna poi segnalare il diversificarsi del luogo di abitazione rispetto ai luoghi di lavoro, studio, partecipazione sociale, amicizia ed – in genere – di vita.

Ne viene una situazione complessa che porta in primo piano delle domande di fondo: come avviene oggi la ricerca della verità? quali cammini sta prendendo l’esperienza interiore e spirituale delle persone? Sono domande che riguardano tutta la Chiesa e interessano tutti i membri attivi della comunità parrocchiale. Si tratta di una situazione di minoranza culturale ben nota a tante Chiese del sud del mondo ma che noi, in Italia, stiamo sperimentando solo in questi ultimi decenni.

Spetta a quanti di noi hanno vissuto questo trapasso, incoraggiare e sostenere la creazione di forme pastorali che saranno quelle di un futuro di cui noi possiamo solo intuire l’inizio. Penso alle comunità pastorali, ai Consigli Pastorali, alle responsabilità dei laici nella conduzione degli aspetti organizzativi ed economici delle nostre comunità, allo svilupparsi di gruppi di catechesi o di lettura della Parola.

Dobbiamo ribadire che alcuni luoghi ecclesiali hanno un ruolo particolare nell’offrire richiami e cammini di fede, e tra questi è certo la Chiesa locale, intesa come Diocesi, comunità pastorali, le parrocchie, gruppi di servizio della pastorale o di evangelizzazione.

Chi ci aiuterà in questo cammino, come potrebbe essere espresso in maniera sintetica lo sguardo nuovo da dare alla Parrocchia del nostro tempo e della nostra città, dopo sessanta anni dalla sua fondazione?

Prendo spunto, per un tentativo di risposta, da un recente discorso di Papa Francesco ai vescovi dell’America Centrale, incontrati nel corso del suo viaggio a Panama per la Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata in quel Paese dal 24 al 26 gennaio scorsi. Mi sembra che egli ci presenti una cifra sintetica, nello stesso tempo rasserenante e impegnativa del nostro compito di oggi.

«Per lui [San Oscar Romero]… , sentire con la Chiesa è prendere parte alla gloria della Chiesa, che consiste nel portare nel proprio intimo tutta la kenosis di Cristo. Nella Chiesa Cristo vive tra di noi, e perciò essa dev’essere umile e povera, perché una Chiesa arrogante, una chiesa piena di orgoglio, una Chiesa autosufficiente non è la Chiesa della kenosis (cfr. S. Oscar Romero, Omelia, 1° ottobre 1978).

  1. Portare dentro di sé la kenosis di Cristo

Questa non è solo la gloria della Chiesa, ma anche una vocazione, un invito affinché sia nostra gloria personale e via di santità. La kenosis di Cristo non è una cosa del passato ma una garanzia attuale per sentire e scoprire la sua presenza operante nella storia. Presenza che non possiamo e non vogliamo tacere perché sappiamo e abbiamo sperimentato che solo Lui è “Via, Verità e Vita”. La kenosis di Cristo ci ricorda che Dio salva nella storia, nella vita di ogni uomo, che questa è anche la sua storia e lì ci viene incontro (cfr Id., Omelia, 7 dicembre 1978). …  Farlo nello stile del Signore significa lasciare che questa sofferenza [diminuzione, svuotamento] colpisca e contrassegni le nostre priorità e i nostri gusti, colpisca e contrassegni l’uso del tempo e del denaro e anche il modo di pregare, per poter ungere tutto e tutti con la consolazione dell’amicizia di Gesù in una comunità di fede che contenga e apra un orizzonte sempre nuovo che dia senso e speranza alla vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). La kenosis di Cristo esige di abbandonare la virtualità dell’esistenza e dei discorsi per ascoltare il rumore e il richiamo costante di persone reali che ci provocano a creare legami…  Senza questo sentire, tutto il nostro parlare, riunirci, incontrarci, scrivere sarà segno di una fede che non ha saputo accompagnare la kenosis del Signore, una fede che è rimasta a metà strada, quando, peggio ancora – mi ricordo un pensatore latino-americano – non finisce per essere una religione con un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa e una Chiesa senza popolo». (INCONTRO CON I VESCOVI CENTROAMERICANI (SEDAC) DISCORSO DEL SANTO PADRE, Chiesa di S. Francisco de Asis (Panama) Giovedì, 24 gennaio 2019)

Partendo da questa proposta di Papa Francesco, provo a delineare tre elementi concreti e attuali che possono tradurre in atto la nostra partecipazione a quello ‘svuotarsi’ di Cristo, annunciato da Paolo nella lettera ai Filippesi. La kenosis di Cristo è una grazia attuale per scoprire e sperimentare la sua presenza operante nella storia, per vivere la vicenda attuale della nostra comunità parrocchiale. Mi auguro che le note seguenti possano ispirare i nostri sentimenti e le nostre azioni, nella speranza e nella gioia dello Spirito:

  1. La Chiesa è di Gesù. Per essere salvata da Lui deve stare attorno a Lui, come una vera comunità. Si struttura attorno al Papa e agli Apostoli; ciascuno di coloro che ne fanno parte è chiamato a riscoprire l’importanza dell’ascolto dell’altro. La comunità cristiana sul territorio è minacciata da un grande rischio: ci occupiamo delle cose da fare tanto da perdere di vista le persone e la necessità di metterle al centro della vita e della missione della comunità parrocchiale. Ci ritroviamo senza più tempo per ascoltarci, le porte si chiudono, e i monologhi sradicano quello che dovrebbe essere, al di sopra di tutto, lo spazio di dialogo e di mutua edificazione.
  2. La Chiesa è comunità di fede. La dimensione della conoscenza della verità contenuta nel Vangelo deve essere ricercata da ciascuno di noi. Leggiamo la Parola di Dio! Abbiamo passione perché i nostri passi quotidiani, l’esperienza della nostra vita che è generata dalla nostra modesta sapienza quotidiana, sia sempre confrontata e confortata dal Vangelo e dalla Scrittura. Come possiamo vivere di Gesù, essere partecipi della sua vittoria sul male, se non ricordiamo i doni che ci portano i gesti sacramentali, la ricchezza della liturgia, celebrata assieme, o portata nella nostra vita dalla preghiera personale e dalla preghiera liturgica?
  3. La Chiesa, e la parrocchia, nella modernità riscopre la sua dimensione autentica: una comunità di persone che, avendo pari dignità, sono tutte e ciascuna segnate dallo Spirito del Signore. Dunque, si tratta di persone chiamate a mettere in azione i doni dello Spirito di cui sono portatori. Nella liturgia, nella carità, nel proprio lavoro, nella propria professione e nelle proprie competenze, nel dialogo quotidiano nel quale far scorgere a chi ci sta attorno, senza paternalismi, le luci del Vangelo, che danno sapore e illuminano la vita quotidiana.
  4. La Chiesa, la parrocchia, il cristiano, sono in grado di riscoprire la forza generatrice della povertà. La comunità parrocchiale approfondisce il proprio mistero quando riscopre che la povertà rende più materna e meglio fortificata per quella che è la sua forza vera: le braccia stese del Crocefisso che può solo amare! Siamo attenti a quanti conosciamo, siamo disponibili al saluto e alla necessità di tutti, in particolare al povero della porta accanto; facciamo quanto ci è possibile per contrastare la povertà che segna tante esistenze nel nostro Paese, e nel mondo.

La nostra parrocchia, per motivi di carità –la madre del donatore principale si chiamava Anna- è affidata alla madre di Maria. Anna è una santa che non appare mai nei Vangeli, il cui nome ci è noto attraverso le narrazioni –i vangeli deuterocanonici- che la Chiesa non ha considerato del tutto utili all’annuncio del Vangelo di Gesù. Dunque, una Sante umile, la cui vita è per noi una grazia impareggiabile: ha generato Maria e il suo figlio Gesù. A lei affidiamo il secondo cinquantennio di questa nostra comunità, e insieme ora preghiamo sua figlia Maria, benedetta.

 

Omelia di Mons. Giovanni Giudici