Accanto a chi è infermo e ammalato – don Ambrogio Giudici

Pubblicato giorno 14 maggio 2019 - Informatore Parrocchiale, Vita della comunità

Conosciamo tutti lo stato di sofferenza in cui, al di là dell’aspetto fisico, versa una persona inferma. Essa non è più in grado di disporre di sé né di programmare il proprio futuro né di gestire il proprio corpo; sovente si considera come inutile o addirittura d’intralcio per chi gli sta vicino.

Si tratta di una ‘situazione di disagio’ che ciascuno vorrebbe evitare ma che inevitabilmente incrocia il nostro cammino. Nel contesto attuale poi costituisce una indubbia e diffusa ‘periferia dell’umano’ che ci è domandato di abitare, perché non venga mai smarrito ‘il senso di grazia’ pur sempre connaturale con la vita. Infatti, anche se di fronte al dolore molteplici interrogativi ci inquietano e la stessa fede è messa al vaglio, il tempo della fragilità e della debolezza può paradossalmente rappresentare una occasione di crescita umana e spirituale sia per chi ne patisce il peso sia per chi lo condivide.

Sappiamo di vicende particolarmente edificanti in tal senso, anche di gente comune, in queste note però mi limito a qualche osservazione suggeritami dalla mia esperienza e dalla abituale frequentazione dei malati.

Quando ti ritrovi accanto una persona inferma, fosse malata o disabile, e ti accompagni a lei o stabilisci con lei un legame di amicizia e di abituale familiarità, sei costretto ad una sorta di spogliazione che conduce ad individuare e riscoprire quello che è essenziale nella vita, riconoscendone il senso ultimo e decisivo. Allora diviene evidente ciò che per noi è davvero importante e conta, insieme alla nostra sensibilità umana ed alla qualità della fede.

Nella misura in cui ti disponi a condividere ‘il mondo della sofferenza ti rendi conto che la fragilità e la debolezza sono proprie della nostra condizione creaturale, segnano la nostra esistenza e per questo, oltre che suscitare inquietanti interrogativi, ci interpellano. Di fatto possiamo subirle o assumerle, accettando la sfida e ricercando almeno un orizzonte di senso entro cui collocarle e farne esperienza.

Vi è poi una fondamentale lezione di vita da apprendere, seppure a volte a caro prezzo, dalla malattia: nessuno basta a sé stesso e tutto quello che di bene ci può capitare nel tempo terreno è sempre ‘poca cosa’ rispetto all’attesa del cuore. Abbiamo bisogno degli altri per sostenerci reciprocamente ed abbiamo bisogno di quell’Altro che appaghi il desiderio di pienezza che nutriamo in noi e che purtroppo vediamo smentito dalle inevitabili avversità in cui ci imbattiamo.

La fragilità umana, che la malattia costringe a misurare, ci ridesta la consapevolezza della dimensione comunionale della vita e della sua trascendenza.

Ritengo inoltre che si riesca a ‘stare pacificati con chi soffre’ qualora riconosciamo il nostro limite ed accettiamo con serenità non solo la debolezza dell’altro ma la nostra stessa personale impotenza, mantenendo pur sempre una radicale fiducia nelle possibilità e nelle ragioni dell’amore.

Una persona malata in effetti ha certamente bisogno di cure ed assistenza, perché la sua sofferenza esige di essere alleviata, ma in lei vi è soprattutto una domanda d’amore, esaudendo la quale può ancora ritrovare una ragione per continuare a vivere.

Solo l’amore è in grado di liberare dalla solitudine e dalla mortificante marginalità in cui l’infermità ci viene a relegare. Solo se qualcuno mantiene rivolto il suo sguardo d’amore su di noi comprendiamo che vale la pena vivere e vediamo le nostre giornate ricollocate in un orizzonte di luce. E l’amore da condividere con una persona inferma e malata è pura gratuità.

La gratuità di ‘perder tempo’, perché di fronte ad un cuore che attende non c’è agenda di ‘cose da fare’ che si possa anteporre.

La gratuità di una compagnia fedele che, pur nell’impotenza, continua ad offrire una compiaciuta affezione in grado di farci sentire reciprocamente cari, avvertendo che ciascuno è prezioso agli occhi dell’altro.

La gratuità del linguaggio della tenerezza che, nonostante la povertà delle parole, con la dolcezza dei gesti faccia gioire nel contatto rassicurante e con la delicatezza dei toni schiuda le labbra al sorriso.

E’ con queste disposizioni d’animo che potremo riflettere un poco quella condiscendenza graziosa di Dio, la sola capace di redimere l’umana sofferenza, rendendola, seppure con i suoi tratti impervi e faticosi, una via di salvezza.

don Ambrogio